di Valeria Macauda e Federico Bennardo
La COVID-19, femminile, è una patologia causata da un emergente virus della famiglia dei corona e il 2019 è l’anno in cui per la prima volta si è palesata per poi diventare, nel marzo 2020, pandemica.
La comparsa della stessa è ancora avvolta nel mistero e dal documento redatto a seguito dell’azione investigativa dei tecnici OMS in Cina appare “altamente improbabile” lo scenario della fuga da un laboratorio e “possibile” invece il salto di specie da pipistrelli ed altri animali intermedi a causa dello stretto contatto esistente nei grandi agglomerati urbani cinesi tra uomo e animale. Essendo la crescita demografica in continuo aumento - arriveremo a toccare i 10 miliardi nel 2083[1] - e che l’uomo dipende fortemente dagli altri animali per il suo sostentamento, ci si aspetta come conseguenza che questo rapporto sia destinato a diventare più stretto e nuovi agenti microbici prima sconosciuti palesarsi.
In tutto il mondo in assenza di un protocollo validato vengono messe in atto misure straordinarie volte a flettere la curva dei contagi, delle ospedalizzazioni e dei decessi. Al fine di ottimizzare le risorse disponibili, ad esempio, in Italia il Ministero della Salute è stato costretto a dar delle priorità nei livelli di assistenza, alcuni reparti ospedalieri sono stati interamente riconvertiti e il personale sanitario convogliato a fronteggiare l’emergenza. Sul finire dello scorso anno, sviluppati in tempi record, arrivano i vaccini, vero strumento di lotta al virus.
A testimoniarne il beneficio della loro efficacia sono stati i risultati pubblicati in quei Paesi avanti a noi nella campagna vaccinale. È il caso del Regno Unito, in cui nella fascia d’età degli ultra-ottantenni il vaccino ha prodotto una riduzione degli ingressi ospedalieri pari all’83%[2], o in maniera più lampante, di Israele dove a fronte di un’elevata copertura vaccinale i contagi giornalieri sono ormai decine.[3]. Nel frattempo altrove si cercano soluzioni alternative nell’attesa di una buona copertura vaccinale, obiettivo difficile da raggiungere per due principali ragioni che si identificano nell’asimmetrico accesso alle dosi tra diverse aree geografiche e nella diffidenza crescente a farsi vaccinare.Perché tanta disuguaglianza nella distribuzione del vaccino nelle diverse aree geografiche? Un articolo pubblicato su Nature[4] prova a fare il punto della situazione riportando, già nel Novembre 2020, come a fronte di circa 10 miliardi di preordinazioni, la metà fossero da parte dell’UE e cinque altre “rich nations” malgrado le stesse rappresentino il 13% della popolazione mondiale. Per tutti gli altri le dosi arriveranno verosimilmente quando, soddisfatto il proprio fabbisogno, i Paesi più ricchi doneranno le dosi in eccesso (il Canada ha prenotato un numero di dosi tali che ogni abitante ne avesse 9).
Perché tale diffidenza crescente a farsi vaccinare? I decessi sospetti per apparenti fenomeni trombo-embolici, avvenuti dopo la somministrazione di tipologie vaccinali, hanno acceso l’opinione pubblica per settimane, minando di fatto la stessa campagna nel pieno della sua impennata e ancor prima di opportune verifiche sulla relazione di causalità tra somministrazione della dose e decesso. Tra una sospensione delle somministrazioni, poi rientrata, e una notizia roboante in prima pagina, è accaduto che la cosiddetta “vaccine hesitancy” è cresciuta enormemente. Il tasso di rifiuto nel nostro Paese è aumentato, specialmente in alcune regioni del meridione fino al 70% a Reggio Calabria, dove si arriva a chiedere di poter scegliere il vaccino che verrà inoculato[5]. A conseguenza di ciò le regioni meno diffidenti chiedono una ridistribuzione delle dosi non utilizzate. Questo ha reso necessaria, da una parte, l’introduzione di contromisure, come ad esempio l’obbligo della vaccinazione dei sanitari ai fini dell’esercizio della professione[6] e, dall’altra ha posto l’interrogativo sulla condotta dei media e dei vari enti regolatori sulla gestione delle notizie.
Il ritmo a cui sono andate le vaccinazioni, meno sostenuto di quanto preventivato, costituisce un freno alla ripartenza economica che viene posticipata al momento in cui, in maniera significativa e definitiva, verranno meno le restrizioni, il distanziamento sociale e, combinatamente, l’incertezza derivante dall’emergenza sanitaria.
Mancando un corrispettivo nella storia, soprattutto in termini di interrelazioni politiche ed economiche presenti al giorno d’oggi, risulta difficile prevedere di che entità sarà l’effetto finale sull’economia del COVID-19. Tale condizione non fa che generare ulteriore incertezza tra gli agenti economici e l’incertezza, si sa, non è una buona alleata per prendere decisioni, anche di carattere economico.
Nei consumatori promuove il cambiamento delle abitudini di consumo e ne abbiamo già avuto evidenza in questo ultimo anno[7]. “Precautionary saving for rainy days” è la formula con cui, nella teoria economica, ci si riferisce a tale fenomeno per cui le famiglie risparmiano oggi assicurandosi contro l’incertezza che un domani possano arrivare tempi peggiori. Nel caso dell’emergenza sanitaria è chiaro che la flessione dei consumi finali sia stata causata, oltre che da questa incertezza di fondo, anche dall’impossibilità materiale di spendere date le restrizioni.
Specularmente, l’incertezza induce le imprese a rivedere i propri piani di investimento in capitale ma anche in ricerca e sviluppo. L’investimento di per sé è descritto da tre caratteristiche: è duraturo nel tempo, è irreversibile e i futuri guadagni che genera sono incerti. Dati questi elementi è chiaro che in tempi di elevata incertezza per un’impresa acquisti valore l’opzione di aspettare e procrastinare.
La politica economica ha risposto alla crisi sanitaria supportando con ingenti sussidi famiglie e imprese con il fine ultimo di preservare i redditi, dal lato della domanda, e il tessuto produttivo, dal lato dell’offerta, così da esser pronti e in forze per la ripartenza, e ha investito parecchio nelle misure per la ripresa con il fine ultimo di minimizzare la probabilità che la pandemia crei delle cicatrici permanenti sull’economia e quindi sui trend di crescita potenziali[8].
Tuttavia nonostante gli sforzi economici e sanitari rimangono alcuni importanti interrogativi: quando i vaccini saranno prodotti, distribuiti e somministrati il più rapidamente possibile in tutto il mondo, così da ridurre la possibilità che si sviluppino varianti resistenti e garantire la ripresa dell’economia globale? Quale sarà il prezzo da pagare per l’aver trascurato cicli terapeutici e campagne di screening? Questa crisi avrà stravolto permanentemente le abitudini di consumo a cui l’offerta dovrà riadattarsi nel tempo? Quali saranno le implicazioni sul mercato del lavoro e sull’incremento delle disuguaglianze?